mercoledì 17 Aprile 2024

Il cane come proiezione – un approccio buddhista alla caninità

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Sono anni che allevo cani, decenni che li possiedo, eppure mai come in questi ultimi tempi mi si ripropone la stessa domanda un po’ ossessiva: cos’è il cane?
Sembra una domanda ovvia a cui si possono dare risposte scientifiche molto soddisfacenti, oppure risposte antropologiche che ne fissano un’identità nella storia umana.
Eppure non credo sia una domanda oziosa. Perchè siamo in un’epoca in cui la scienza seziona i suoi oggetti, li scompone e ce li presenta come materia del tutto scoperta.
Eppure il cane è anche e soprattutto materia esistenziale, muove le nostre emozioni e diventa oggetto dei nostri sentimenti, e in questo frangente diventa un oggetto sfuggente spesso violentato nella sua animalità e ridotto ad altro.
Cos’altro? Mi sembra di poter dire che la più potente tentazione dell’uomo è quella dell’umanizzazione del cane.
E non è soltanto una tentazione ma una pratica ormai consolidata, una deriva.
Lo vediamo ovunque: nella normale percezione di un padrone così come nella rappresentazione cinematografica, nella dilagante offerta di oggetti del pet market come nella proposta di molte scuole di educazione.
Il cane come un piccolo uomo, un po’ meno intelligente ed autosufficiente, e quindi da gestire, curare, indirizzare e da cui pretendere amore incondizionato.
Ci inventiamo necessità urgenti, rappresentazioni della sua mente, dei suoi bisogni e lo rendiamo altro da sé, ma nostra creatura.
Cos’è questo movimento? Ce lo siamo mai domandato?
Se ci facciamo caso è un movimento che l’uomo mette in atto in molti contesti sin dall’inizio della sua storia.
La nascita delle divinità, ad esempio, è imputabile ad un meccanismo generato dalla paura: l’uomo assisteva al fenomeno di un fulmine, era sopraffatto dalle emozioni di fronte a questo evento ignoto e lo chiamava dio.  In questo modo diventava un oggetto che faceva meno paura, da venerare, da ingraziarsi, a cui sottomettersi: ma comunque un ignoto addomesticato e quindi, in ultima analisi, stesso sangue.
La scienza stessa, nella sua famelica frenesia di rendere simile il dissimile, di spiegare, di rendere meno minacciosa la realtà, è stata sempre mossa alla sua radice dell’inscindibile binomio paura/curiosità.
Arrivando ai giorni nostri, se pensiamo a come la cinematografia tratta l’”altro da sè” per eccellenza, l’inquietante per antonomasia, e cioè l’extraterreste, abbiamo un’idea chiara del concetto.
Umanizzazione, rendere commestibile e decifrabile l’altro.
Ma cosa succede all’altro quando gli si cuce addosso questo vestito da noi confezionato?
L’altro scompare, e quando non scompare viene umiliato nella sua identità, viene svuotato della sua essenza.
Forse è inutile, quanto macroscopico, suggerire questa chiave di lettura all’approccio che ha causato l’annientamento degli indiani d’America e della loro cultura, ridotti ormai ad un souvenir svuotato della propria anima.
Inutile forse anche ricordare l’approccio culturale con cui l’occidentale si sta relazionando alla diversità musulmana e a quei popoli. Probabilmente finirà per svuotarli della propria essenza, li renderà commestibili e simili e, in definitiva, spariranno.

Vi domanderete: cosa c’entra il cane in tutto questo?
Secondo me il cane è una metafora dell’alterità che abbiamo sempre a portata di mano. E’ qui con noi, riempie porzioni significative delle nostre vite, spesso lo preferiamo ai nostri stessi simili.
Cos’è il cane?
Beh, mi sembra evidente che anche con lui abbiamo messo in pratica tutte le nostre strategie “assimilatorie” per disinnescare tutto il suo portato di alterità e di mistero.
E’ ridondante forse elencare le operazioni culturali fatte dai film di Walt Disney o dai telefilm come Rex e simili. Un continuo, soave, dolcissimo svuotamento dell’inquientante e del diverso per consegnarci omuncoli buffi e pieni di abilità accettate.
Ci siamo mai domandati se stiamo davvero con il nostro cane quando stiamo con lui?
A me sembra che stiamo molto più coi nostri pensieri su di lui, con le nostre proiezioni. Siamo una continua emissione di pensieri. Stiamo col nostro cane oppure con il nostro orgoglio di una buona performance, in qualsivoglia frangente essa venga rappresentata?
Stiamo con lui oppure con la nostra delusione perchè non è bello, obbediente, sano, affettuoso come si prescrive?
Lo vestiamo continuamente di aspettative condivise, di proiezioni umane, di sentimenti tutti nostri e poco a poco lo perdiamo.
Diventa il “nostro cane”, e sempre meno quell’altro, quell’irriducibile altro che è.

Abbiamo creato una fittissima rete di modelli, spesso anche funzionali, nei quali comunque lo ingabbiamo e forse lo smarriamo.
Prendiamo ad esempio il modello gerarchico di cui molta della moderna educazione cinofila si serve per interpretare il cane ed i suoi comportamenti. E’ un modello. E’ nella nostra testa. Lo condividiamo, ma, come recita un noto refrain della comunicazione: la mappa non è il territorio. Noi ci approcciamo al cane seguendo il copione di quello schema perchè in molti frangenti è un modello funzionale.
Se noi fossimo di qualche religione e condividessimo un modello che vede il cane come divinità in terra con varie pratiche conseguenti, applicheremmo modelli diversi, funzionali a quel contesto ed avremmo tutta una diversa liturgia dei comportamenti e degli schemi di relazione.
Di contro a tutto ciò, un cane non educato, un cane mordace, non è solo una minaccia ma è un cane fuori dal nostro controllo, una scheggia impazzita. A livello simbolico diventa l’ignoto, l’inconscio, il caso che esce dai nostri calcoli, dalle nostre ragionevolissime assimilazioni.
Il cane difficile è fuori dalla Grazia, è ciò che ci ripropone prepotentemente l’ombra della vita, il caso, l’assurdo.
Il “cane cattivo” è un cane arrogante prima di tutto.
Il cane difficile, il cane non educabile è invece, a mio avviso, la risposta disperata dell’altro-da-sé che reclama il suo spazio e, forse la sua dignità.
Ma sembra essere una richiesta inascoltata, forse incompresa e continuiamo in questa silenziosa violenza in cui il cane è riempito di emozioni, necessità, ruoli decisi da noi, da noi tutti condivisi e si sa, funziona così: quando una cosa la pensano in molti pare debba coincidere con la verità.
Oggi il cane domestico sembra l’effetto della punizione che abbiamo inflitto al lupo per aver osato spaventarci da bambini, al cane randagio per non aver aderito con la sua anarchia alla cornice che faticosamente cercavamo di costruire intorno alla specie. Con tanto amore… ma io ascrivo questa operazione all’interno della lista delle violenze contro gli animali.
In questo modo viene disinnescato nel cane tutto il suo portato di mistero, tutto il suo portato di alterità.
Se c’è una cosa magica nei nostri cani, qualcosa che li rende unici è proprio la loro irriducibile alterità, il loro essere altro da noi, irrimediabilmente.
Viceversa, questo movimento silenzioso che tende a rendere simile il dissimile,  a digerire i bocconi più indigesti di ciò che si sottrae alla nostra decodificazione e quindi, in ultima istanza, al nostro controllo, ci restituisce sempre più un essere violentato e profanato.
Jiddu Krishnamurti diceva in modo molto perentorio che paura ed amore non possono coesistere. E quindi per estensione, laddove ci sono movimenti che hanno alla radice la paura, quello che chiamiamo amore incondizionato non è altro che una sua imitazione, non è altro che una vergogna privata che sdoganiamo pubblicamente dandole il nome di amore.

La domanda quindi è: come si esce da questo quadro così deprimente?
Prima di tutto (e non è un affermazione troppo ingenua) il quadro bisogna vederlo. Bisogna vederlo e rivederlo.
Nel senso che bisogna prendere consapevolezza del movimento con cui ci approcciamo all’altro. Dobbiamo diventarne degli esperti!
La consapevolezza (sati in lingua Pali) ha diversi buoni effetti, uno dei quali è quello di togliere innocenza e forza alle nostre dinamiche automatiche.
Un gioco scoperto non è più un gioco. Perde il suo privilegio di viaggiare in incognito e diventa, eventualmente, una scelta consapevole.
La scommessa è quella di diventare finalmente consapevoli di questa codifica che continuamente imponiamo alla realtà ed operare un salto evolutivo nella nostra relazione col cane.
Ed un credibile salto evolutivo non può non fare i conti con colei che tutto muove, e cioè la paura.
Senza un lavoro a questo livello ogni frutto viene inficiato nella sua esistenza da questo peccato originale. Lavorare sulla paura significa lavorare su un concetto assolutamente centrale nell’impianto teorico/pratico buddhista, e cioè l’accettazione.
Questa non è certo la sede per affrontare concetti di così larga portata e di così vasta letteratura, però servano soltanto per additare una strada teorico/pratica che stiamo mettendo a punto con la nostra Associazione, la Lupus et Fabula, per un nuovo percorso della cinofilia.
Il programma che stiamo preparando è assolutamente ambizioso ma potrà attingere nella sua esecuzione a molta della tradizione meditativa formale ed informale che ci arriva dalla cultura buddhista.
Praticando e studiando da circa vent’anni in questo ambito ci siamo accorti infatti che molti degli esercizi pensati nei secoli per lo sviluppo della consapevolezza in certe aree della mente e del cuore possono avere una loro ragion d’essere – ed anche una loro rinnovata efficacia dico io – se applicati al binomio uomo/cane.
Sarà una proposta nella quale avremo la certezza che il nostro cane non apprenderà nessuna nuova abilità operativa, ma avremo la possibilità di lavorare insieme a lui in aree delicate della nostra mente/cuore per una relazione più vera.
Partiamo dal concetto allargato secondo il quale stare-con significa stare in silenzio, e magari in reale ascolto.
E quindi ci proponiamo un lavoro volto ad “azzittire” tutte le nostre voci interiori quando stiamo col nostro cane, alleggerirlo di tutte le nostre aspettative e di tutte le nozioni che crediamo di sapere su di lui e che invece di avvicinarlo lo allontanano irrimediabilmente.
Stare col nostro cane può significare toccare con tutti i nostri battiti una incolmabile distanza, ma insieme trovare un contatto profondo in quanto esseri-al-mondo gettati in un palcoscenico di cui nessuno comprende il senso: la vita.
Neanche a dirlo, tutto quanto detto è trasferibile per intero alle relazioni umane. La codifica delle relazioni è la fine delle relazioni.
Ma, come direbbero quelli bravi, questa è proprio un’altra storia e ve la risparmio.

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18 Commenti

  1. Ciao Mirella, si tratta di un articolo scritto molto tempo fa (per lo meno “molto tempo fa” a livello personale) perchè da allora sono cambiate parecchie cose nella mia vita. Prima di tutto ho smesso di allevare cani; secondo, ho cambiato paese; terzo, faccio, con piacere, tutt’altro; quarto, ho capito che un discorso di questo tipo andava a minare le basi di una “relazione” che coinvolge milioni di persone e, come dire, non era proprio accolto con il tappeto rosso. In più andava a togliere molte delle certezze sulle quali si edifica tutto quell’arcipelago di discipline con cui la gente mangia nell’universo cane. Non ho smesso con la Vipassana… e questo mi fa rileggere questo articolo e condividerlo, a distanza di anni, una volta di più. Credo di capire quello che scrivi riguardo ai gatti e agli oranghi. Penso che un approccio buddhista alla animalità sia un libro ancora tutto da scrivere e che, così come la proposta buddhista in generale, sarà senz’altro un cammino che incontrerà le resistenze più tenaci da parte di tutti. Ciò non vuol dire che non sia una buona idea!
    Metta

    • Allora niente Lupus et Fabula?già ci contavo!!!!
      Però mi incuriosisci:hai cambiato Paese o paese?eppure l’articolo è di poco più di un anno fa!
      Io sono stata forse fortunata nella mia esperienza con il cane,perchè non l’ho voluto,ovvero,senza aver mai pensato di prendere un cane,animale che mi lasciava abbastanza indifferente,ho trovato un cucciolo delizioso nel bosco e da lì ho cominciato a conoscere, se non il cane,almeno lui.Adesso non ne ho perchè i miei gatti non hanno accettato un adulto che ho tentato di adottare dopo la sua morte, e non voglio correre altri rischi.
      A me non risulta che il pensiero buddista sia molto interessato alla mente animale,essendo per il buddismo la nascita umana il massimo delle realizzazioni.Se hai un cattivo karma puoi rinascere nel regno animale.Io su questo non sono convintissima,però visto che sono umana mi adeguo alla mia condizione.Avrò un prossimo ritiro con un maestro dzogchen inglese e mi riprometto di chiedere lumi a lui.Ti ringrazio della risposta,con metta
      Mirella

  2. Ciao,mi è piaciuto il tuo articolo.
    Naturalmente vale anche per i gatti,no?I quali sono animali “più veri”,se così si può dire,mentre i cani in natura non esistono,sembra non ci si pensi mai,ma sono il risultato di infinite manipolazioni umane tendenti a creare un animale “come tu lo vuoi”,perciò è più facile fare proiezioni sui cani di sentimenti e comportamenti umani.Io li amo,ne ho avuto uno,un meraviglioso setter di grande carattere (leggi:capacità manipolatoria nei miei confronti!)ma se devo dire il vero mi fanno un pò pena. Con le tigri va diversamente.Non ti prendi una tigre in casa,normalmente.Qualcuno lo fa ma è malato.
    Sono psicologa umana, praticante Vipassana e Dzogchen,nonchè amante cani e gatti e di tutto il resto,specialmente oranghi che ho avuto la fortuna di frequentare da vicino.Con i primati non fare proiezioni è ancora più difficile,dato la pochissima distanza che ci separa da loro.
    Se metti a punto qualche programma tienimi informata,per piacere.
    Con metta
    Mirella

    • Nel momento in cui iniziamo a raggruppare e mettere etichette, perdiamo di vista la realtà delle cose e l’unicità di ogni singolo componente del gruppo.
      Dire labrador o musulmano significa passare sopra alle differenze (fondamentali) fra Fido e Birillo, fra Ahmed e Sahid.
      E’ come se dicessimo Italiano riferendoci, esempio a caso, a Berlusconi; invece Italiani siamo tutti, io, voi, don Gallo e Mussolini!
      Lavoro con gli animali ogni giorno e i problemi principali nella relazione uomo-animale (dal cavallo al criceto!) sono legati alle etichette che, consapevolmente o meno, appiccichiamo loro; ogni animale invece, come ogni proprietario, richiede un approccio diverso (è questa la cosa più stimolante!). Osserviamo le loro reazioni, facciamo piccoli ‘esperimenti’, siamo creativi nella ricerca di spiegazioni e soluzioni.
      I problemi è più probabile che si risolvano e la nostra vita sarà più ricca.
      Ciao a tutti.

    • Hai piena ragione. Quello che scrivi ha molto a che vedere con una distinzione molto sottolineata in ambito buddhista, e cioè quella tra verotà relativa e verità ultima. Sono molto d’accordo che emerga questo condizionamento dell’etichetta nel lavoro con gli animali. Forse è il più grande ostacolo alla corretta visione dell’animale in cui mi imbatto con i miei clienti.

  3. Se ti può tranquillizzare…La Costa Smeralda cambia padrone.A puntare su uno degli scorci di mare più belli del mondo e sul suo business turistico, adesso è l’emiro del Qatar, Hamad bin Kalifa al-Thani, uno degli uomini più ricchi del pianeta, attraverso il fondo sovrano Qatar Holding.

    • E a te che te ne frega – giusto per saperlo, eh? Nessuna polemica – se l’emiro è cattolico, musulmano o taoista? Sempre giusto per saperlo… chettefrega di chi pregano tutti i fedeli di ‘sto mondo? Massaranno cavolacci loro?
      Per me i credenti si dividono solo in DUE categorie: quelli che pregano il Dio loro senza rompere le palle agli altri e quelli che fanno a rompere le palle agli altri perché devono pensarla come loro. E stando così le cose,i cristiani (e i cattolici in particolare) finora hanno rotto il triplo di tutti gli altri messi assieme.
      Se invece non rompono le palle a nessuno, per me possono anche pregare il Dio Vulcano o il Dio Coccinella: a me che fastidio danno?

  4. [Inutile forse anche ricordare l’approccio culturale con cui l’occidentale si sta relazionando alla diversità musulmana e a quei popoli. Probabilmente finirà per svuotarli della propria essenza, li renderà commestibili e simili e, in definitiva, spariranno.]
    Se ti può tranquillizzare…”Un miliardo e 322 milioni di musulmani rappresentano il 19,2% della popolazione mondiale, un miliardo e 130 milioni di cattolici il 17,4%. Dunque l’ Islam avanza ed è divenuto la prima religione della Terra.”Fonte(Corriere della sera-30 marzo 2008))

    • Non credo sia necessario essere una cima per capire che al di là del numero delle anime, sono quelle cattoliche a detenere “i mezzi di produzione”, gran parte delle ricchezze ed il controllo dei media (strumento principe per realizzare l’operazione descritta). Un milione di straccioni in questo senso valgono più o meno come un ricco in questi frangenti.

  5. In realtà ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta la fuggente sensazione di sentirsi una cosa sola con il proprio animale, perchè non pensavamo a niente, perchè non lo chiamavamo CANE nè FIDO, perchè ci eravamo intesi con un’occhiata o un sospiro, perchè correvamo entrambi senza fiato per rincorrere la lepre spuntata all’improvviso o sonnecchiavamo pigramente sull’argine di un fosso. Crescendo, qualcuno di noi ha imparato che quello si chiama Buddismo. Anche grazie a questo articolo. Grazie!!!

  6. Sono assolutamente d’accordo con le osservazioni fatte da Valeria. L’articolo non voleva (e mi dispiace se ne può aver dato l’impressione) invalidare l’importanza, a volte la necessità, di un percorso educativo e di attività da fare col cane. Mi piaceva presentare una lettura che aprisse degli interrogativi e spazi di riflessione su versanti del nostro rapporto col cane che passano per automatici e naturali e che forse non lo sono.
    M piace moltissimo quello che scrive Manilo e non sento di aggiungere una virgola: hai centrato esattamente il cuore di quello che volevo condividere.

  7. Buon Giorno Alessandro…che bell’articolo!!!
    Mi permetto di acccennare a qualche riflessione personale sorta dalla mia esperienza con i cani e che, credo, abbia nel suo piccolo qualcosa in comune a quanto si dice nell’articolo.
    Si tratta di riflessioni e critiche che ho maturato su me stesso facendo una ricognizione delle mie esperienze.
    In breve, parlando di me, ad un tratto mi sono reso conto che ero condizionato da troppi clichè ed aspettative sui cani e che in fondo spesso si è trattato di pretese, di qualcosa che occlude la possibilità di vedere ed ascoltare l’altro nelle situazioni di ogni giorno. Quando ho scelto di prendere un cane con me ho sempre cercato di fare le cose “per bene”, interrogarmi su quel che stavo per fare, scegliere l’allevatore a cui rivolgermi,riflettere su come relazionarmi al cane…ma – scusate se scado nel banale – oggi sono arrivato alla convinzione che, in un certo modo, io partisssi da un’idea del cane che lo avvicinava più ad un “oggetto”, ad un “giocattolo” o comunque ad un essere che rispetto a me avrebbe dovuto, lungo i giorni, mettere in atto una serie di atteggiamenti e comportamenti prevedibili. Ecco era come se fossi più orientato al cane che avevo in mente che non a quello in casa e in giardino, al quale inevitabilmente “il cane in mente” si sovrapponeva.
    Oggi credo che la prima “cosa” che dovrebbe almeno far traballare clichè, aspettative, precomprensioni…è non il sapere, ma percepire, sentire che un cane è vita, ha una propria autonomia nel sentire, nel pensare, nel guardare il mondo. Spesso forse si è così abituati ad avere i cani vicino che non ci poniamo su di loro alcuna domanda, accettiamo un insieme di nozioni preconfezionate e tra noi e i cani si crea un muro di incomprensione. E credo veramente, come scrive Alessandro, che tutto ciò che nasce dalla paura non può portare a conseguenze positive e men che meno all’amore.
    Chissà, forse abbiamo troppa paura dell’alterità e della libertà dell’altro con tutte le possibilità che essa porta con sè?
    Io credo che un rapporto con il cane rimanga sempre un itinerario verso l’alterità e che le riflessioni di Alessandro possano valere e radicarsi nella quotidianità.
    D’altro canto credo sia giusto quanto dice Valeria sul fatto che la domesticazione implichi già una certa riduzione dell’alterità e sul fatto che l’approccio “facciamo qualcosa insieme” possa essere valido, piacevole e costruttivo per il cane. Il punto secondo me è riuscire ad orientarsi, pian piano, sull’ascolto ed il riconoscimento del cane come altro da noi. Andare all’essenziale lasciando cadere pretese e pregiudizi che ci allontanano da un incontro reale con il cane. E facendo anche attenzione a quel che davvero proviamo noi mentre interagimo con lui, facendo emergere tutta una serie di pensieri talvolta impliciti ed inconsapevoli.
    Ciò non significa certo “buttare il bambino assieme alll’acqua sporca” e in tal senso condivido appieno le parole con cui Valeria conclude il suo post. Grazie e scusate l’eccessiva lunghezza del post…

  8. Ho pubblicato davvero con entusiasmo questo articolo di Alessandro, nonostante io sia l’esatto opposto di una persona spirituale. Però è bello, per una volta, leggere che qualcuno si pone il problema di “cosa sia il cane” e non quello – la sfumatura è sottile… – di “cosa possiamo inventarci per far pensare al pubblico che siamo gli unici al mondo a chiederci come rispettare davvero un cane, per poi guadagnarci sopra”.
    Premetto che non conosco personalmente Alessandro e che abbiamo scambiato solo qualche email: ma l’ho sentito sincero. E per quanto io abbia illustrato questo suo articolo con foto tenere ma anche un po’ buffe, sono convinta che lui queste domande se le stia ponendo molto seriamente.
    Allora comincio col dare la mia risposta, altrettanto seria, sperando che altri lettori dicano la loro: secondo me la totale alterità del cane è andata perduta con la domesticazione. Il che significa anche, però, che il cane è ancora con noi proprio perché l’ha perduta: altrimenti sarebbe stato oggetto di caccia e di sterminio come tanti altri animali che l’uomo non è mai stato capace di rispettare (almeno l’uomo moderno: perché gli indiani d’America, che Alessandro ha citato nel suo pezzo, così come gli Inuit e molti altri popoli che noi chiamiamo in tono un po’ sprezzante “primitivi” avevano, al contrario di noi, grandissimo rispetto anche per gli animali che cacciavano. Tanto per cominciare, non uccidevano mai per divertimento e mai più di quanto servisse alla loro sopravvivenza: quando penso alle foto dei cacciatori con la strage di fagiani tutta schierata ai loro piedi, mi chiedo chi sia il “primitivo”).
    Addomesticando il cane, però, in parte l’abbiamo “umanizzato”, eccome. Siamo diventati noi il suo “branco”. E al di là del discorso sulle gerarchie, che ormai ho già ripetuto millemila volte e sul quale non torno perché prima o poi qualcuno mi lancia un monitor…è indubbio che ci siamo assunti la responsabilità di un animale che è “altro da noi”, sì, ma che dipende da noi, che vive nella nostra società e ne fa parte. E almeno per quella che è la mia esperienza, è felice solo quando ne fa parte sentendo di avere un ruolo preciso: il che giustifica il fatto che lavoriamo e/o facciamo sport con lui. Non solo per NOI, ma anche per LUI.
    C’è sicuramente spazio per qualcosa di più (e probabilmente di meglio): l’idea di stare in silenzio a condividere momenti con il mio cane non è soltanto bellissima, ma è anche (per me, pragmatista e atea) una delle poche cose che mi avvicina a una sorta di spiritualità. Io penso che se ci fosse un Dio, e avesse creato un’umanità capace di tutto il male che sa fare l’uomo, quel Dio sarebbe un cinico o un sadico. Quando penso a quelle creature meravigliose che sono i cani, invece, penso che potrebbe averle create solo un Qualcuno davvero illuminato. Chi lo sa: forse sono in due, lassù. Ma lo scopriremo solo morendo (sorry, Battisti).
    Insomma, questo approccio buddhista alla caninità mi intrippa un sacco (anche se non ne so nulla di buddhismo), ma credo che dovrebbe camminare fianco a fianco, e non sostituire l’approccio del “facciamo cose insieme”: perché il cane vuole farle, queste cose. Ed è palesemente felice di farle, ovviamente se vengono fatte rispettandolo e non costringendolo o forzandolo.

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