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Imprinting & impregnazione

di VALERIA ROSSI – Oltre ai principi del condizionamento operante, una cosa che spesso non appare chiara a chi si avvicina al mondo dell’educazione cinofila è la differenza tra “imprinting” e “impregnazione”.
Per l’ennesima volta, la confusione nasce quando si vuole andare a trovare il termine tecnico più preciso e perfettino per qualcosa che, negli ultimi 50 anni, è sempre stato chiamato in un altro modo: pur di specificare, sottilizzare e puntualizzare si finisce per confondere le idee alle persone.
Ma tant’è… visto che oggi i termini vengono quasi sempre distinti, cerchiamo almeno di capire esattamente cosa significhino e quali siano le differenze.

Cominciamo col dire che il termine “imprinting” ha diversi significati. In genetica è un fenomeno epigenetico che causa la mancata attivazione di uno dei due alleli di un gene; per i nanotecnologi è una tecnica di polimerizzazione. Ecco, SCORDATEVI di tutto questo.
A noi interessa uno ed un solo significato, quello etologico: che indica il processo di apprendimento istintivo (non legato all’esperienza individuale) che porta al riconoscimento della propria specie e dei propri conspecifici.

La teoria dell’apprendimento istintivo, sviluppata da Konrad Lorenz nel 1937, entrò in netto contrasto con il comportamentismo – studiato negli stessi anni – che sosteneva invece che ogni comportamento è frutto dell’apprendimento: Lorenz, quindi, incontrò diverse critiche da parte dei  comportamentisti (o behaviouristi) dell’epoca: ma alla fine il padre dell’etologia mise tutti a tacere con i suoi celeberrimi esperimenti sulle anatre selvatiche.
Dimostrò, infatti, che gli anatroccoli appena usciti dall’uovo consideravano come “madre” il primo essere in movimento su cui posavano gli occhi: se i pulcini vedevano lui anziché la loro madre naturale, cominciavano a seguirlo ovunque.

Lorenz chiamò questo processo “imprinting”, specificando che:

a) si trattava, appunto, di un comportamento innato e non acquisito;
b) avveniva durante un periodo particolare, che Lorenz chiamò “periodo sensibile” e che aveva una durata brevissima, ridotta a poche ore;
c) era irreversibile: una volta fissati sull’umano, gli anatroccoli non erano più in grado di riconoscere i loro veri conspecifici come tali, pur accettandone la compagnia. Anche come partner sessuali le anatre adulte cercavano l’uomo e non le loro simili;
d) non selezionava i caratteri individuali, ma quelli specie-specifici (un’anatra selvatica imprintata sull’uomo seguiva tutti gli uomini, e non soltanto il singolo individuo che aveva visto alla nascita);
e) era rafforzato, e non inibito, dagli stimoli dolorosi (al contrario dell’apprendimento, dove lo stimolo doloroso porta sempre all’evitamento).

Credo che tutti abbiate visto foto e filmati di Lorenz con il suo stuolo di anatroccoli alle calcagna, quindi non sto a dilungarmi su questo punto: specifico invece che l’imprinting propriamente detto si applica esclusivamente agli animali ad orientamento visivo, come gli uccelli, e soltanto agli animali “a prole atta”, cioè capaci di muoversi ed agire autonomamente subito dopo la nascita (nel caso degli uccelli, ai cosiddetti “nidifughi”).
Negli animali “a prole inetta” (“nidicoli”, nel caso degli uccelli), che hanno bisogno di cure parentali di lunga durata prima di poter agire in modo autonomo, l’imprinting è più lento, non è  irreversibile ed è basato su una serie di fattori molto più complessa della semplice “impronta visiva”.
Il fenomeno venne studiato anche nei primati (scimmie Rhesus), laddove venne dimostrato che il piccolo si lega alla madre soprattutto attraverso l’odore, il calore, il senso di morbidezza e il senso di sicurezza (il nutrimento è in fondo alla scala dei valori, contrariamente a quanto si pensava fino a quel momento).

Ma si può ancora parlare di “imprinting” vero e proprio?
In realtà  i due fenomeni sono sostanzialmente diversi. Infatti, negli animali a prole inetta, il processo:

a) è legato ad un ventaglio di stimoli molto più ampio rispetto alla sola “impronta” visiva;
b) alcuni stimoli sono più efficaci di altri;
c) aumenta o diminuisce di intensità a seconda della durata dei contatti;
d) il periodo sensibile può essere anche piuttosto lungo.

Si è dato quindi il nome di “impregnazione” al processo che riguardava i fenomeni di attaccamento materno e riconoscimento intraspecifico nei mammiferi e negli uccelli nidicoli, proprio per rendere l’idea di un processo più complesso: non un’ “impronta” unica, rapida e definitiva, ma appunto un'”impregnazione” graduale e di durata maggiore.

C’è poi ancora una differenza sostanziale tra gli animali ad orientamento visivo (come gli uccelli e i primati, uomo ovviamente compreso) e quelli ad orientamento olfattivo (come il cane): infatti, a differenza dell’anatra (o del bambino umano) che non possono vedere se stessi, il cane è perfettamente in grado di annusare se stesso.

Questo cosa comporta?
Comporta il fatto che un cane che venisse, per esempio, allevato da una gatta (cosa che succede abbastanza spesso nelle famiglie umane in cui sono presenti entrambe le specie) avrebbe, sì, un primo “imprinting” sulla specie felina… ma la prima volta in cui vedesse un cane lo riconoscerebbe come conspecifico, perché potrebbe paragonare il suo odore con il proprio e scoprire così che appartengono alla stessa specie.

E fin qui, tutto fila abbastanza liscio… almeno fino al momento in cui non cominciamo a chiederci se un cucciolo può impregnarsi anche sugli esseri umani.
La risposta, naturalmente, è SI.
Sia nel caso in cui un cucciolo resti orfano e venga allevato esclusivamente dall’uomo, sia nel caso in cui l’uomo “entri a far parte del suo mondo” durante il periodo sensibile, per quanto il cucciolo viva nella sua famiglia naturale e sia presente la madre naturale.
Nei mammiferi domestici, infatti, esiste la possibilità di una doppia impregnazione: sia sulla madre che su soggetti di specie diversa dalla sua con i quali abbia contatti di tipo affettivo, ma sempre e solo durante il periodo sensibile.

Come dicevo all’inizio, un po’ di confusione è stata ingenerata dal fatto che gli etologi, per moltissimi anni, abbiano chiamato tutti “imprinting” sia l’imprinting vero e proprio, sia l’impregnazione.
Eberhard Trumler, vero e proprio “padre” dell’etologia canina (nonché allievo dello stesso Lorenz), nei due libri che furono l’unica ed assoluta Bibbia per tutti quelli della mia generazione che si interessavano di etologia canina (“A tu per tu con il cane” e “Il cane preso sul serio”, la cui lettura consiglio tuttora caldamente… sempre che riusciate a trovarli), distinse lo sviluppo del cucciolo in diverse fasi (vegetativa – di transizione – dell’imprinting – della socializzazione – dell’ordinamento gerarchico – della pubertà) che vengono riportate praticamente su tutti i testi esistenti, esclusi quelli degli ultimissimi anni in cui alcuni di questi termini sono stati modificati.
Risultato: cosa significasse “imprinting”  (anche con le relative variabilità tra una specie e l’altro) ormai l’avevano capito proprio tutti, compresa la Sciuramaria (almeno il tipo di Sciuramaria che comincia ad interessarsi, almeno a grandi linee, di etologia).
Oggi che le viene detto che l’imprinting è una cosa e l’impregnazione un’altra, la Sciuramaria va in crisi.
Questo è il motivo per cui, personalmente, fino ad oggi ho preferito usare il termine “imprinting” (pur specificando che nel cane c’erano sostanziali differenze rispetto alle oche di Lorenz e blablabla…), anche a costo di litigare di brutto coi cinofilosofi che venivano a farmi le pulci sul termine (divenuto) improprio.
Oggi, però, mi arrendo e annuncio ufficialmente che parlerò di “impregnazione” quando mi riferirò al cane: specificando sempre, però, che “impregnazione” e “particolare tipo di imprinting che si verifica nei mammiferi domestici” SONO LA STESSA IDENTICA COSA.
Sono, è vero, cose diverse dall’imprinting che si verifica negli uccelli, e che scientificamente è l’unico a potersi chiamare così.
Però non è l’impregnazione sia una novità caduta dal cielo: è cambiato il nome,  non il concetto!

Una volta stabilito questo… che cos’è l'”imprinting nel cane”, ovvero l’impregnazione?
Ma soprattutto, a che caspita serve?
Serve, evidentemente, a fissare nella mente del cane – in modo istintivo, innato, automatico, chiamatelo come volete…ma comunque “non appreso attraverso l’esperienza” –  il concetto di “conspecificità”, che include il riconoscimento della figura materna, quello dei partner sociali e quello dei patner sessuali.

Ora:
a) abbiamo visto che l’impregnazione è dovuta ad una serie di stimoli diversi, e non al solo impatto visivo.
b) abbiamo visto che il periodo sensibile non è limitato a poche ore, ma dura molto più a lungo (secondo Trumler si colloca da quarta alla settima settimana: per altri Autori arriva fino l’ottava… MA NON VA OLTRE.  E questo è un fattore fondamentale).
c) abbiamo visto che, nel cane, l’impregnazione NON è irreversibile, perché il cane può annusare se stesso e quindi riconoscere i conspecifici attraverso l’odore anche al termine del periodo sensibile.

SOLO CHE
a noi, del fatto che il cane si imprinti/impronti/impregni sui cani, importa relativamente poco.
Cioè, è interessante sapere come avviene, perché avviene, quando avviene… ma alla fine della favola, il risultato è abbastanza scontato.
Il cane sa di essere un cane: WOW, che scopertona!
E infatti non è questa, la parte più importante.

La parte importante è quella che riguarda la “doppia impregnazione” di cui abbiamo parlato sopra: ovvero il fatto che il cane non solo sappia di essere un cane, ma pensi di essere anche un po’ umano. Ovvero il fatto che riconosca anche NOI come conspecifici (o almeno come membri del suo stesso gruppo sociale).

Se questo non avvenisse, sarebbe una tragedia: perché i predatori (come il cane, almeno geneticamente, anche con la domesticazione le cose sono un po’ cambiate) hanno un modo abbastanza drastico di definire l'”altro da sè”.
I casi, per loro, sono soltanto quattro: a) conspecifico (o membro dello stesso gruppo sociale, o parte integrante del proprio branco); b) predatore; c) preda; d) soggetto neutro.
Fine delle possibilità e delle alternative.

Ovviamente, almeno nel caso del cane:
a) con i conspecifici si instaurano rapporti sociali, si gioca, si litiga, si fa amicizia, si fa l’amore, si domina, si sottomette, si collabora ecc.
b) di fronte ai predatori, si scappa (o si lotta, se proprio non c’è via di fuga);
c) le prede si rincorrono, catturano, mangiano;
d) i soggetti neutri si ignorano: non c’è alcun tipo di rapporto.

Poiché noi col cane vogliamo invece interagire, creare rapporti molto stretti, addirittura collaborare, lavorare insieme… dove potremmo mai collocarci, per riuscire nel nostro intento?
Non certo nelle categorie b, c o d: perché, nell’ordine, il cane:
a) avrebbe paura di noi (come avviene infatti con il suo antenato lupo);
b) ci attaccherebbe;
c) ci ignorerebbe completamente.

Rimane solo la a)… con un piccolo problemino collaterale: noi NON siamo cani!
E abbiamo visto che il cane, essendo un animale ad orientamento olfattivo e potendo annusare se stesso, è in grado di distinguere i suoi conspecifici dall’odore.
Per questo motivo noi dovremo entrare in sala parto e farci ANNUSARE molto da lui durante il periodo sensibile (quello che veniva definito da Trumler come “fase dell’imprinting”, e che adesso possiamo chiamare “fase dell’impregnazione”), cosicché lui impari che “gli odori di famiglia” sono due: quello canino e quello umano.
Dovremo anche stringere con lui un rapporto affettivo, un vero e proprio legame, fin da quando è ancora un neonato: perché l’odore in se stesso non basta. Deve trattarsi dell’odore di qualcuno/qualcosa che interagisce con lui.

Però, COSA ASSOLUTAMENTE FONDAMENTALE:  potremo fare tutto questo SOLO durante il periodo sensibile!
Perché è solo in quel periodo che il cucciolo fissa nella propria mente, in modo non consapevole, l’immagine del “conspecifico”.
Dopo quel periodo, è vero, sarà ancora in grado di riconoscere un altro cane come conspecifico dall’odore… ma non sarà certamente in grado di riconoscere un UMANO, perché questi ha un odore completamente diverso!
E se questo odore non l’ha fissato al momento giusto come odore facente parte del suo gruppo sociale, potrà identificarlo solo come l’odore di un predatore, di una preda o di un soggetto neutro (al quale, però, col cavolo che si obbedisce, che ci si collabora e che si interagisce in alcun modo).

Ci sono ancora due cose da sottolineare:
1 – il fatto che questa storia dell’odore (e dell’aspetto, e della gestualità, e di tutto quanto abbiamo di diverso) funziona anche in senso contrario.
Ovvero:  anche il cucciolo più profondamente impregnato sull’uomo, sotto sotto, si accorge che proprio cani-cani noi non siamo.  Proprio perché noi  (dal suo punto di vista)  “puzziamo di uomo”  anziché profumare di cane.
Questo ha portato alcuni studiosi a ritenere che non si possano instaurare con un cane gli stessi tipi di rapporto (a partire da quello gerarchico, che è poi quello su cui ci si “scanna” di più tra etologi, educatori, addestratori eccetera) che i cani instaurano tra di loro: altri (tra cui la sottoscritta) sono invece convinti che, con i comportamenti corretti, si possa assolutamente riuscire ad essere considerati “cani” almeno al 90%.
Ovvio che non ci riusciremo mai se ci comporteremo nel modo più antetico possibile alla caninità: i cani non sono mica scemi. E d’accordo l’impregnazione, d’accordo la socializzazione, d’accordo tutto… ma appena smette di basarsi solo sugli istinti, il cane comincia a RAGIONARE.
Perché il fatto è che Lorenz e i comportamentisti, alla fin fine, avevano ragione entrambi: nel cane convivono sia i comportamenti innati che quelli appresi.
Quindi, non basta avere un odore che istintivamente faccia pensare al cane “questo è un mio simile”: bisogna anche comportarsi come tale. Altrimenti il cane, ragionando, pensa: “Uhm, forse no. Mi sono sbagliato”. E ci manda a quel paese.
Se invece noi  impariamo a parlare decentemente il “canese”,  dopo il cucciolo è stato impregnato in modo corretto, si può arrivare a costruire un rapporto davvero MOLTO vicino a quello specie-specifico: e chi non ne fosse ancora convinto ha solo che da guardarsi i documentari che riguardano Shaun Ellis, che è riuscito ad entrare a far parte di un branco di lupi.
Lupi, eh! Non cani. Animali selvatici, mai domesticati, quindi immensamente più difficili da “turlupinare” facendogli credere di essere “uno di loro”.
E se c’è riuscito lui con i lupi, vorrete per caso raccontarmi che non è possibile riuscirci con un cane?

La realtà è una sola: non è possibile per chi non è capace.
Che poi questi voglia arrampicarsi sugli specchi per dimostrare che cane e uomo non potranno mai interagire come conspecifici, è un problema suo: però, per favore, non crediamogli. Perché non è vero.

2 – “membro del proprio gruppo sociale” e “membro del branco” non sono propriamente sinonimi tra loro, e tantomeno sono sinonimi di “conspecifico”.
Lo dimostra il fatto che un cane può, per esempio, diventare amicone di un gatto che faccia parte della sua stessa famiglia… ma che questo non gli impedisca di rincorrere e -se ci riesce – di mangiarsi tutti i gatti estranei che incontra. Una certa “confidenza” può instaurarsi anche tra specie diverse che vivono nello stesso ambiente. Un'”amicizia” (basata spesso sull’opportunismo e sullo scambio reciproco) può nascere tra membri dello stesso gruppo sociale. Una “collaborazione” vera e propria nascerà solo tra conspecifici… o quantomeno, tra soggetti che si ritengono il più possibile vicini a questa definizione.

Riassumendo:
a) l’imprinting riferito al cane è un processo leggermente diverso da quello che avviene negli uccelli: “impregnazione” è un termine più corretto per definirlo, così come è corretto applicarlo a tutte le specie a prole inetta;
b) l’impregnazione, nel cane, si verifica nel periodo sensibile che va dalla terza alla settima/ottava settimana di vita (e quindi se ne deve occupare l’allevatore, non il nuovo proprietario del cane). SOLO in questo periodo il cane potrà avere la “doppia impregnazione”, ovvero considerare conspecifici sia la madre e i fratelli che l’uomo;
c) al termine del periodo sensibile è ancora possibile che il cane riconosca i suoi simili come tali: ma se il cucciolo non è mai stato impregnato sull’uomo, i giochi saranno chiusi. L’uomo verrà considerato o come predatore, o come preda, o come soggetto neutro da ignorare completamente: quindi non sarà possibile alcun rapporto, né alcuna collaborazione (se non quella basata sulla coercizione e la paura).
d) per ottenere che il cane si impregni anche sull’uomo, questi non dovrà farsi solo “vedere”, ma anche (anzi, soprattutto!) annusare. Inoltre dovrà avere rapporti affettivi con i cuccioli: pulirli, toccarli, giocare con loro.

ATTENZIONE: per quanto sia importante che il cucciolo stringa un legame affettivo con “un” umano, è fortemente consigliabile che nel periodo sensibile abbia contatti con persone di tipo diverso (per esempio: un uomo, una donna, un bambino), perché i loro odori sono diversi ed è assai utile che il cucciolo li “fissi” tutti.
Spesso si nota che un cane adulto, per quanto generalmente amichevole e socievole con gli umani, diventa improvvisamente diffidente, o addirittura aggressivo, nei confronti di persone che hanno la pelle di colore diverso, o che vivono in ambienti particolari e sono quindi impregnati di odori particolari (un esempio classico è quello dei preti).
Questa diffidenza è causata dal fatto che “quei” particolari odori si differenziano dal generico “odore di umano” che il cucciolo ha fissato durante il periodo sensibile.
Si può rimediare, in parte, con la socializzazione – che avviene in un periodo successivo a quello dell’impregnazione – , ma sarà  difficile eliminare del tutto il problema (per esempio: è abbastanza agevole ottenere che il cane smetta di temere o di essere aggressivo verso gli extracomunitari, ma se un extracomunitario cercherà di farsi obbedire da un cane che è stato impregnato solo su persone di pelle bianca, potrà incontrare seri ostacoli. Infatti gli “umani con odore sconosciuto”, anche in fase di socializzazione, vengono catalogati come “soggetti neutri”, ma non come conspecifici).
In alcuni casi si sviluppano reazioni negative verso intere categorie che non sono rientrate nel processo di impregnazione. Una mia cucciolata, che ha attraversato il periodo sensibile in un periodo in cui mio marito era in ospedale, si è impregnata soltanto su di me e su mia madre… e per diverse settimane quei cuccioli hanno manifestato reazioni di paura  verso tutti gli umani maschi.
E’ stata necessaria una socializzazione particolarmente intensa e mirata per superare il problema, e in un caso – cucciolo affidato a una signora single – non si è mai risolto del tutto. Il cane, in generale, era diventato abbastanza amichevole con gli uomini, ma bastava che uno di loro alzasse un po’ la voce, o facesse qualche gesto brusco, perché lui cominciasse a ringhiargli.

Insomma: la fase dell’impregnazione è FONDAMENTALE per la vita del cane e per il suo rapporto con noi. Bisogna ricordarlo sempre e non sottovalutare MAI questo periodo della sua vita… anche, se quando parliamo di “conspecificità“, in realtà esageriamo un pochino.
Resta il fatto che un cane imprintato/improntato/impregnato sull’uomo (e poi socializzato, altra fase importantissima) sarà  sempre un cane collaborativo e perfettamente inserito nella nostra società: mentre un cane non impegnato, o impregnato solo in parte, o impregnato in modo scorretto, sarà immancabilmente un cane problematico.
E in alcuni casi – specie se, oltre all’impregnazione, è mancata anche la socializzazione – non sarà più possibile rimediare.