venerdì 29 Marzo 2024

Pedagogia e Cinologia

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di TANIA ANDREUTTI – Sono nata nel 1979 e sotto l’aspetto pedagogico la cultura era già molto diversa dai giorni dell’infanzia del mio papà, perlomeno in Friuli, quando i bambini non venivano ascoltati, a scuola si usavano punizioni anche fisiche come la bacchettata sulle mani e nel tempo libero venivano spesso abbandonati a loro stessi.
Maria Montessori e Rudolf Steiner erano già comparsi sulla scena da un po’ ma sicuramente nulla di quanto professato da loro avrebbe potuto attecchire in quel momento in quel luogo.
Quando sono nata io le cose stavano cambiando già da un po’ tanto che nella mia educazione ha svolto un ruolo di prima linea il libro del Dr. Spock (fino a qualche anno fa quando mia mamma lo nominava ero convinta fosse l’omino con le orecchie a punta di Star Trek) la cui tesi principale, largamente criticata, fu la necessità di un forte permissivismo da parte dei genitori verso i propri bambini.
Libera di esprimere la mia personalità al massimo sono cresciuta sicura di me, forte…certo, anche troppo.
Si narra che il mio gioco preferito già a due anni fosse, una volta indossati i miei scarponcini Sultanino (rinforzati e pesanti che servivano per prevenire i piedi piatti), prendere la rincorsa e correre in cucina a tirare calci nelle caviglie alla Lucilla (la donna delle pulizie) mentre stirava. Nell’estate del 1983 si narra io abbia fatto fuggire un numero imbarazzante di baby sitter che se ne andavano dicendo che non c’era prezzo per tenermi. D’altra parte stavo affermando con forza la mia personalità e non accettavo di buon grado i limiti.
Un primo dubbio sull’efficacia a tutto tondo del metodo spockiano interpretato dalla mia famiglia risale al 1982, avevo tre anni.
La divertente immagine è quella di mia madre che nel tentativo di capire perché non riusciva a togliermi il pannolino senza che io pisciassi sui cuscini del divano, mi seguiva mentre scorrazzavo nuda per casa e per il terrazzo per capire se quando la facevo mi fermavo o continuavo a camminare; quindi se avessi lo stimolo ma semplicemente mi rifiutassi di usare il vasino o se ancora non avessi lo stimolo. All’ennesima pisciata sul cuscino del divano mio padre, di rientro da una giornata pesante di lavoro, stufo di trovare i cuscini pisciati mi rifilò il primo ceffone! Assolutamente contrario ad ogni teoria montessoriana, steineriana e spockiana portata avanti dal mio primo vagito. Quella è stata l’ultima volta che l’ho fatto; pochi mesi dopo non portavo più il pannolino. Quello si è rivelato essere in seguito solo il primo di tanti ceffoni terapeutici.
Calci nelle caviglie della Lucilla a parte, racconto sempre con orgoglio le scelte “culturali” ed educative intraprese dai miei genitori nella mia prima infanzia. Inoltre ringrazierò sempre i miei per avermi insegnato direttamente i nomi delle cose senza passare per i dududù, dadadà e i neologismi familiari infantili prodotti da bambini di tre anni che solo i genitori riescono orgogliosamente a tradurre.
Non c’è dubbio che nello sviluppo della personalità certi metodi siano efficaci ed utili, ma a mio avviso ingestibili se non vengono accompagnati da regole chiare, semplici, coerenti che inflessibilmente vanno fatte rispettare.
Non per cattiveria, non si tratta di coercizione ma di fornire al bambino gli strumenti per stare al mondo. E a mio avviso l’educazione deve prevedere rinforzi e punizioni, dove per punizione non intendo ceffoni ma piuttosto un castigo. Ritengo si tratti delle necessarie conseguenze negative ad un comportamento indesiderato. Necessarie per vivere in una società civile.
Il problema, dal mio punto di vista, sta proprio nel fatto che quello fosse un periodo di passaggio in cui la PUNIZIONE non godeva di un’ampia letteratura scientifica che non prevedesse la punizione fisica. La punizione più semplice e conosciuta era un prestito dal passato, il classico ceffone. Oltretutto la punizione non era contemplata dalla pedagogia “gentile” dell’Emilio di Rousseau & Co che teorizzano educazione preventiva, esperienza diretta, sviluppo spontaneo…etc..

A mio avviso questo è quello che sta succedendo adesso nel mondo cinofilo. In ritardo sicuramente rispetto alla pedagogia, parlando di cinologia stiamo assistendo al diffondersi di cinofilosofie bellissime che si pongono come violenta reazione ad anni di strumentalizzazione del cane addestrato con gli unici mezzi allora conosciuti ben poco gentili; parliamo di coercizione.
A volte però, a contatto con certe reazioni inorridite di fronte alla parola “punizione” mi sembra che si stia perdendo di vista  la natura del cane.
L’Emilio di Rousseu è del 1762, segue il principio della “bontà originaria dell’uomo”, principio aspramente contestato in seguito: ma le sue teorie pedagogiche favorirono metodi educativi più permissivi e più attenti all’aspetto psicologico dell’educando.
Da allora la pedagogia ha fatto passi da giganti e l’utopia dello sviluppo naturale e spontaneo resta molto affascinante, ma nessun genitore consapevole seguirebbe al giorno d’oggi questa filosofia nell’educazione dei propri figli.
Eppure ritrovo, opportunamente adattati, teorie molto simili in certe cino-filosofie attuali, molto belle da leggere ma che per come la vedo io non tengono conto della natura del cane, soprattutto di alcune tipologie di cane che per genetica (selezione nostra), per caratteristiche individuali, per esperienze passate, si ritrovano senza quei punti di riferimento di cui avrebbero bisogno.
Le regole, i limiti, l’utilizzo della prossemica e addirittura il NO vengono demonizzati, additati come coercizione, lasciando ben pochi strumenti alternativi che spesso trovano la risposta meno triste nella reclusione in un box ma spesso sfociano nella più triste risposta di tutte: l’abbandono.
Il dito a quel punto viene puntato contro la selezione che dovrebbe far sparire dalla genetica del cane il carattere dell’aggressività, della predazione e preservare solo le caratteristiche caratteriali neoteniche che più si discostano dall’antenato lupo per poter portare avanti le teorie che si basano sul principio della “bontà originaria del cane”.

Spero sia chiaro che non sto in nessun modo suggerendo che la punizione attiva, la violenza fisica, sia una forma di punizione accettabile, ritengo invece che esistano diversi modi per punire un cane che non prevedono l’uso della violenza.
Anche per bloccare correttamente e rispettosamente un comportamento sgradito del cane è importantissimo conoscere l’animale, come funziona la sua mente e come funzionano i processi di apprendimento;  non si possono trascurare gli stati emotivi ed è necessario interrogarci e trovare la risposta al perché il comportamento sgradito è stato presentato.
La violenza è la risposta ignorante ad un’azione che non riusciamo a capire o che semplicemente non siamo stati in grado di prevenire guidando il cane nella direzione del preferibile.
I “ceffoni terapeutici” sono esempi di reazioni emotive a situazioni sulle quali non si riesce ad avere controllo e ci si trovano del tutto disarmati. Sono quel tipo di reazioni che tramite la conoscenza e l’apprendimento vogliamo evitare.

A questo punto non mi resta che attendere, non passivamente s’intende, la fine di questa delirante fase di passaggio che rifiuta non solo l’esistenza ma addirittura termini come aggressività, leadership, punizione e tanti altri, introducendo tanti neologismi per concetti tutt’altro che nuovi.
In questo futuro mi voglio portare dal presente i concetti del rispetto dell’animale, una miglior comprensione degli stati emotivi, l’attenzione alla lettura olistica del cane, ai segnali, alla comunicazione, la rivoluzione dei metodi di apprendimento: ma soprattutto vorrei che l’attenzione al rapporto e alla motivazione rimanessero/diventassero il primo pensiero di ogni cinofilo.
Un rapporto costruito nel rispetto della natura dei nostri amici a quattro zampe tenendo conto della loro genetica, della loro personalità, del loro passato, delle loro esperienze. Il rispetto della natura del barboncino tanto quanto della natura del malinois, del chihuahua come del pastore del caucaso, ognuno con le proprie esigenze diverse che vanno tenute in considerazione prima della scelta del cane, così come per tutto il resto della sua vita con noi.
Vorrei che l’etica e la cultura si diffondessero tra gli esseri umani responsabili della presenza del cane nella nostra società e vorrei assistere a questa trasformazione, perché come cinofila sono nata quando per troppi miei conspecifici il rispetto non era dovuto alle altre specie, ma poi ho visto e sperimentato quello che uomo e cane assieme possono condividere rispettandosi e imparando a conoscersi a vicenda e non voglio perdermi nemmeno un passaggio di questo miracolo in via di sviluppo.

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6 Commenti

  1. infatti come è giusto che sia, ad ogni umano il suo cane! Solo così vivrà bene sia il cane che il “padrone” 🙂

  2. Grande articolo, condivido!

    sciuramaria, il giorno in cui si alleveranno solo cani dolci e docili, il cane sarà estinto…ci sarà solo un surrogato per chi vorrà egoisticamente continuare ad interagire con un essere vivente, ma che sia poco più impegnativo di un pelouche. I cani sono stati selezionati per molteplici scopi, ci sono quelli buoni e dolci e quelli tosti e mi auguro che continuino ad esserci entrambe le selezioni.

  3. Sono sostanzialmente d’accordo sull’analisi del perché di certi atteggiamenti irrealistici: so per certo di un campo in cui l’educazione di base non comprende neppure l’insegnamento del “seduto” perché non si vuole “forzare il cane”. Li fanno socializzare e stop.

    C’è però un altra componente, a mio avviso, che definirei di tipo “religioso”. E’ attualmente diffusissima una visione disneyana della “natura” intrinsecamente buona, contrapposta all’uomo e ai suoi artefatti, intrinsecamente “cattivi”. C’è nel giardinaggio (e agricoltura) e c’è anche in cinofilia (e altri bestiari, credo). Che poi sia “natura” anche lo tsunami, o il bacillo della peste (o un animale che uccide un altro animale)… questo viene rimosso. La natura è, in questa visione, sempre dolce e carina (cute): è fatta di cuccioli e fiorellini. Se così non è, è colpa dell’uomo.
    Ovviamente questo non sarebbe stato possibile in una cultura agricola in cui della natura si conosceva bene la realtà, ma in un mondo in cui il pericolo maggiore è la collega stronza e spiona o il computer che si impalla, il mito della natura “semplice e buona” non smette mai di far danni.
    Logico quindi che si pensi che se ci sono cani “difficili” la colpa sia dell’uomo che li ha selezionati e che occorra rimediare a questo errore, allevando solo cani dolci e docili (che poi personalmente io amo e che per me voglio solo così, però ci sono anche gusti, capacità ed esigenze diverse dalle mie).

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