sabato 25 Gennaio 2025

Fantasia (Pinocchio e l’Obedience)

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di MAURIZIO ROMANONI – Tintin e suo padre, Melampo, per una strana e forse profetica coincidenza, sono nati entrambi il giorno 25 aprile. Dunque per me la festa nazionale ha, come dire? un valore aggiunto.
Quest’anno, poi, mi pare si sia accesa di strane e un po’ surreali luci.
I grandi fuochi, si sa, talvolta scaturiscono da piccole fiammelle che attecchiscono qua e là e si propagano.
Ma andiamo con ordine.
Qualche giorno fa, proprio il 25 aprile, guidavo sull’autostrada verso Monza – un allenamento festivo con i miei ragazzi – la radio accompagnava di sottofondo i miei pensieri.
Poi, ecco….. una voce rauca, calda, armoniosa  interrompeva le riflessioni e, con forza, si propagava nell’abitacolo.
Sandro Lombardi, insigne artista teatrale, leggeva una lettera che un partigiano aveva inviato alla compagna prima di essere fucilato.
Un tributo RAI al 25 Aprile.
Quant’è magico il potere della recitazione!
Uomini, donne, movimenti, emozioni, sofferenze, rivivevano in un linguaggio un poco lontano dall’attuale, eppure vivido e pulsante. Valori che oggi, nel fango quotidiano, non ritrovo, venivano elevati a vessillo, per la cui difesa valeva l’estremo sacrificio.
Guidavo e le note di quella voce mi rendevano arduo il deglutir saliva.
Dicevo della fiammella che contagia e divampa.
Quella voce, quelle parole mi hanno evocato altre memorie e, appena a casa, sono andato a ricercare un trafiletto di giornale letto alcuni giorni prima.
Era ricorso il centenario della nascita del grande Giorgio Caproni, poeta contemporaneo e, per l’occasione, era stato pubblicato pubblicato un suo articolo su “Pinocchio”.
L’articolo, che qui riporto integralmente per riguardo al Poeta, mi aveva colpito per l’eleganza della forma, la profondità e la grande attualità dei contenuti:

IL “MIO” PINOCCHIO VISTO CON GLI OCCHI DELLA SOLA LETTURAGiorgio Caproni

Da ragazzo ero un lettore appassionato di Pinocchio. Me lo “vedevo” così vivo e vero davanti a me, da considerarlo come un mio compagno in carne e ossa: come Walter, come Diego, come mio fratello Piero. Provai una maledetta delusione – anche sdegno – quando mi regalarono un’edizione illustrata. Eppure, le “figure” erano del Chiostri.
Ma come “non aveva capito nulla”, quel pittore, di Pinocchio! Tale era il mio parere di allora.
Fossero state di Leonardo, quelle illustrazioni, avrei pensato la stessa cosa.
E’ che allora i bambini sapevano leggere. Avevano immaginazione, e riuscivano a “vedere”, anzi a inventare le cose che leggevano, a farsene un’idea concreta, proprio perché tutta personale, diversa forse dall’altra idea che s’era fatto il compagno.
Erano liberi, e la scrittura (diciamo pure la poesia, prosa o versi che fossero) rispettava, anzi fomentava tale loro libertà.
Oggi la parola scritta, da sola, ai bambini – e non soltanto ai bambini, ma anche a quella massa meno evoluta e meno educata che forma la maggioranza – suscita ben pallidi fantasmi, se proprio non vogliamo dire che non suscita più nulla.
Al Pinocchio scritto, che lasciava libero Pierino d’immaginarselo così e Serafino d’immaginarselo cosà, preferiscono il Pinocchio filmato, cioè l’immagine bell’e fatta – eguale per tutti come la Legge -, col risultato che a furia d’abituarsi a immagini bell’e fatte pochi ragazzi d’oggi – e non soltanto ragazzi – provano il gusto della lettura. Non riescono più a vedere, a immaginare. O stentano molto. Faticano.
E’ un bene, è un male? E’ la fine della parola scritta e il trionfo dell’immagine come unico mezzo di espressione e di comunicazione, giacchè anche il giornale tende a farsi visivo? La gente, oggi, vuol vedere, si dice, chiede immagini. E dunque le immagini saranno le giustiziere dell’immaginazione, retaggio d’un’età infantile? E poetica?
La crisi del libro chissà che non abbia le radici qui.

L’avevo letto, dicevo e, come mi capita spesso per gli articoli che, per un verso o per l’altro, mi colpiscono, l’avevo ritagliato e riposto.
Non so bene il perché né cosa mi evocasse esattamente, ma avevo sentito l’obbligo di non gettarlo tra i giornali ormai letti.
Ed ecco ora che la fiamma della lettera del partigiano, recitata in modo sublime da Lombardi, faceva divampare quell’altra, che, solo alcuni giorni prima, mi era parsa fiammella, del grande Caproni.
Ecco! Mi sono detto infine – ecco come intitolerei quel trafiletto su Pinocchio: Fantasia!
Fantasia nel dare un volto ad un burattino, ad un gatto e ad una volpe.
Fantasia nell’immaginare un padre amorevole nel ventre di una balena e gli improbabili capelli turchini di una fata buona.
Fantasia rapita, castrata, da un inopportuno ma certo storicamente inevitabile disegno, e giù sino in fondo.
Sino ad uno schermo televisivo che ingoia, fagocita ogni cosa, che di tutto si appropria, che uccide creatività ed immaginazione, che impone volti, abiti e forme (seni e deretani, aggiungerei), che non lascia spazio alla fantasia ed ai sentimenti, se non a quelli più zuccherosi e stucchevoli.

Che cosa  accomunava, dunque, l’argomento trattato da Lombardi e lo scritto di Caproni?
Credo proprio nulla, a parte la grandezza di questi due uomini e lo spessore delle loro ragguardevoli culture, le profonde emozioni che mi hanno suscitato.
Ma ancora un ulteriore ed ineludibile domanda: cosa induce un anziano cinofilo, che si è imposto di scrivere solo di cani, a fare riferimento ad argomenti tanto alti, scomodando artisti di così grande spessore?
Ho riflettuto a lungo prima di dare una risposta al mio impulso immediato di afferrare carta e penna.
Certo una ossessione, una sorta di paranoia nel vedere o nel cercare – quando incappo in qualcosa di bello e di profondo – una sorta di analogia con quel che faccio con i cani.
Forse un velleitario desiderio di nobilitare, in modo più o meno inconscio, un banale sport, un interesse, una passione. O invece la ricerca di altro che non sia il mero esercizio, la pedissequa corretta esecuzione, la prestazione elevata, il successo agonostico fine a sé stesso.
In ultima analisi, dunque, se nella vita quel che conta di più o, comunque, se riteniamo rivesta una certa importanza la ricerca, l’approfondimento del suo aspetto emozionale, forse non è profanatorio l’accostamento di una toccante lettura, di uno scritto magistrale con la migliore cinofilia.
E più ci penso più non mi pare azzardato definire, se non poetico, certo di elevato valore emozionale, una “ferma” di un setter o di un pointer ad una pernice, nella nebbia che lambisce la brughiera all’alba, checchè se ne pensi della caccia.
Altrettanto direi di un cane da difesa, lavorato in libertà, senza coercizione, mentre cerca il “malfattore”, lo scova, lo attacca, lo lascia e ancora lo attacca.
Di un fluido percorso di agility, di una coreografia di freestyle o di una condotta entusiastica, gli occhi del cane adoranti.
Certo, mi dico, come portano lontano le elucubrazioni!

Ed è proprio elucubrando che mi trovo, infine, a riflettere su di una recente disputa che, si dice, si sia tenuta nel mare magnum della rete.
L’oggetto: “E’, l’obedience una disciplina eminentemente agonistica? Ha senso senza l’agonismo? Può dire a se stesso di praticare l’obedience, colui il quale si tenga lontano dai campi di gara?”
La disputa mi era parsa così dissennata, idiota a tal punto da non richiedere intervento di sorta.
Meglio il silenzio che gettare parole in tanta stupidità. Chi non aveva capito lo spirito di quella disciplina certo non lo avrebbe fatto dopo il mio intervento.
Mi si perdoni l’assolutezza, la perentorietà della mia affermazione, fors’anche la presunzione, ma mi chiedo come possa essere possibile subordinare l’esistenza di quella che considero una tra le più dure ed affascinanti discipline, basata quasi esclusivamente sul rapporto uomo-cane, sull’armonia che scaturisce dal movimento di entrambi, come sia possibile, ripeto, subordinare la sua esistenza al giudizio di uno o più giudici, ad una classifica.
Come si possa sostenere che un giudice, che abbia anche studiato alla perfezione il regolamento ma, forse, non abbia mai condotto un cane in gara – così è per la maggior parte – possa sentenziare se la mia sia stata o meno una buona prestazione.
Potrà operare una classifica, attribuire un punteggio, e ciò è giusto.
Ma mai sarà in grado di entrare nelle pieghe del lavoro che io ed il mio cane abbiamo fatto.
Il giudice troppo spesso guarda, esamina l’attinenza del lavoro al regolamento, difficilmente è in grado di coglierne lo spirito.
Ciò non perché io nutra un particolare malanimo nei confronti dei giudici – uomini e donne con pregi e difetti –  ma perché credo che nessuno, meglio del buon conduttore, possa percepire lo spirito che lo lega al proprio cane. Capire se l’amico a quattro zampe era con lui appeso ad un armonico filo o si trovava, distratto, altrove.
Ho udito giudici urlare scandalizzati di fronte allo “steppare” dell’arcinoto golden norvegese, mentre a me scendevano lacrime di ammirazione.
E ancora. Quante volte siamo usciti da un campo di gara felici nonostante avessimo ottenuto un punteggio mediocre per uno zero inopinato e, al contrario, ce ne siamo andati mesti, nonostante la vittoria, perché il nostro cane, un poco apatico e “slegato” da noi, non ci aveva soddisfatto?
Chi sarebbe pronto a scagliare la famigerata prima pietra?
La gara, come ho sostenuto più volte, serve a fornire oggettività ad una prestazione, ad impegnare l’agonista, ma non potrà mai costituire l’essenza di una disciplina cinofila. Perché questa essenza è la sua anima, il suo spirito pulsante, che vive nell’attimo in cui sono solo con il mio cane, quando accendo il contatto ed insieme creiamo armonia.
Armonia che è anche libera interpretazione, scelta del metodo, ascolto di ciò che il cane propone. (Perché il cane propone sempre la cosa giusta, noi spesso non la cogliamo).
In una parola, fantasia.

Già, eccoci dunque giunti al fondo, all’epilogo.
La stessa fantasia che permise a Giorgio Caproni, bimbo, di raffigurarsi il proprio Pinocchio, di rivestirlo con la propria anima, con la luce che portava dentro i propri occhi.
Sostenere che l’obedience esiste solo in quanto competizione, sarebbe come affermare che il jazz trova la sua essenza nei festival e dimenticarne le radici. Gli anni di schiavitù nelle piantagioni ed i canti spontanei di aggregazione  e di protesta degli schiavi africani. Canti, nenie, lamenti senza spartito, note scritte, persino senza strumenti musicali.
Sostenere ancora, per restare nello starnazzare del frivolo presente, che la canzone, la musica leggera non esisterebbero senza il festival di Sanremo.
Aggiungerei al contrario che, per fortuna, esiste, forse è sempre esistita, nonostante quella stridula e patetica fiera della vanità.
E ancora si potrebbe dire dei vari premi letterari per la prosa e per la poesia.
Queste sono sempre esistite e spero sopravviveranno all’insipienza dei nostri tristi tempi.
I premi le incentivano, le incoraggiano, creano mercato, ma non costituiscono il loro supporto letterario, filosofico, artistico. La loro essenza.
Eccoci, dunque, tornati in alto. Alla lettura di Sandro Lombardi ed al Pinocchio di Giorgio Caproni.
Attraverso emozioni e fantasia, che credo accomunino ciò che di bello e soave l’uomo talvolta è in grado di creare, al di là dell’argomento di cui intenda occuparsi, purché riesca a viverlo staccato dal tornaconto, dal successo, dalla classifica, dall’affermazione del proprio maledettissimo ego.
Solo volando leggero con le ali della propria fantasia.

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6 Commenti

  1. molto bello, che condivido pienamente.
    Riconosco comunque a chi ha scritto la fatadica frase il diritto di pensarla comunque in quel modo sempre nel rispetto del proprio compagno d’avventure (e sapendo chi l’ha scritto, non dubito)

  2. Armonia! E’ la parolina magica che abbatte i regolamenti e i canoni estetici, quel qualcosa in più che distingue il fondersi insieme dai surrogati regolamentati. Come scriveva Neruda:
    “la felicita’
    d’essere cane e d’essere uomo
    trasformata
    in un solo animale
    che cammina muovendo
    sei zampe
    e una coda
    con rugiada.”

  3. Niente da aggiungere o commentare se non GRAZIE. GRAZIE xche’ mi sento meno sola nella ricerca del’ filo armonioso’. Xche’ c’e’ ancora chi cerca.

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