di COSTANZA SAVAIA – Qualche tempo fa mi divertii a scrivere un elenco di tutte le razze canine con le quali avessi interagito almeno una volta fino ad allora, con tanto di numeri di esemplari conosciuti per ogni razza.
Il podio risultò molto interessante: al terzo posto c’era il Pastore tedesco con sette esemplari cuccioli inclusi, al secondo il Labrador retriever con otto esemplari, anche in questo caso cuccioli inclusi, e al primo… il Rottweiler.
Con un distacco impressionante: undici esemplari, cuccioli esclusi. Perché con i cuccioli mi assesto sui venticinque esemplari (ho conosciuto così tanti cuccioli da aver perso il conto, una quindicina è un numero verosimile). Un distacco di sì e no venti elementi rispetto al secondo classificato. Eppure il Rottweiler è una razza meno diffusa rispetto al Labrador e al Pastore tedesco. Ma non so per quale congiunzione astrale, la vita finisce spesso con il piazzarmi una enorme palla di pelo nero-focato sui piedi.
Sì, proprio sui piedi, perché al Rottweiler piace moltissimo piazzarti il culone sui piedi – e no, il Rottweiler non è un peso piuma. Per niente.
Gli adulti potrei citarli in ordine alfabetico: Ares, Chanel, Diablo, Eros, Lu, Pan, Parsifal, Penelope, Pesca, Tabatha, Thor. Della ciurma di cuccioli non credo di avere mai saputo il nome, so solo che mi è capitato un bel giorno di visitare un allevamento per ragioni che spiegherò in un articolo successivo e di conoscervi fra gli altri Eros, per poi trovarmi sommersa da una decina di piccoli morbidissimi esseri uggiolanti, di una tenerezza quasi straziante. Ed altri ancora ne avrei incontrati per le vie cittadine. Ma per le vie cittadine avrei intravisto in realtà innumerevoli cuccioli di altrettante razze, il punto è che i cuccioli di Rottweiler e di molossoidi in generale esercitano su di me un’attrazione molto più forte rispetto a qualsiasi altro tipo di cane. Ecco perché nel conteggio delle interazioni con cani di diverse razze c’è letteralmente un esercito di cuccioli di Rottweiler. Perché gli altri cuccioli di solito li lascio andare per la loro strada, quelli di Rottweiler… no.
Ma veniamo agli adulti (sempre che le parole “Rottweiler” e “adulto” possano davvero stare nella stessa frase). Primo venne Parsifal. E con lui Chanel, Pan e Penelope. E venne in una circostanza abbastanza particolare: la mia prima visita a casa del mio pediatra – viveva nella nostra stessa zona di campagna – quando avevo sette anni.
Il mio dottore amava moltissimo questa razza, tanto da tenerne addirittura quattro esemplari in casa – quattro Rottweiler in casa richiedono molto impegno e molta pazienza.
Perché zono molto pericolozi e akkrezzifi. Zoprattutto con l’arretamento. Arretamento di tottore perioticamente rinnofato con inkresso di nuovi kuzzioli. Interi difani e armadi che zparizkono in fauzi di pericolozi kanikillerdimobilio.
Scherzi a parte, purtroppo non era uno scherzo il pregiudizio che i miei genitori nutrivano verso il Rottweiler quando li vedemmo per la prima volta. Il Rottweiler era un cane relativamente poco diffuso nelle magioni di campagna – ai cani prettamente da difesa venivano preferiti di gran lunga quelli da guardia; nell’intera zona c’era solo un Dobermann e non si era mai visto un Boxer – e i miei non avevano avuto quasi nessuna esperienza con questa razza, lasciandosi spaventare dai pregiudizi.
Quel giorno, quindi, quando chiesi al dottore se potevo conoscere i cani, colsi un fremito di timore in mia madre. Il medico non parve invece minimamente turbato e mi accompagnò al suo grande giardino; aprì la porta che collegava il giardino con l’interno e mi disse, semplicemente, “vai pure”. Mi lasciò andare da sola, lui sarebbe rimasto a distanza a tenere d’occhio la situazione.
In silenzio, avanzai alcuni timidi passi sull’erba, ai piedi di grandi alberi frondosi. E vidi, sdraiati al suolo nel fresco della penombra, quattro enormi patatoni nero-focati che ronfavano della grossa.
Uno di loro, un grosso maschio, alzò la testa e mi scrutò con occhi assonnati. Gli altri tre dischiusero a malapena le palpebre, mi guardarono ma per il resto non diedero segni di vita.
Non avevo mai conosciuto un branco di molossoidi prima di allora. Le reminiscenze della mia primissima infanzia e del mio amico Pastore tedesco mi portavano alla mente immagini di mobilitazioni improvvise, abbai, tempeste di segnali corporei, e l’avanzare festoso del Pastore che mi dava il benvenuto e mi scortava all’interno del branco agitato e chiassoso.
Da quei quattro Rottweiler, invece, al momento il massimo segnale che avevo ricevuto era la testa alta del grosso maschio, Parsifal, che comunque non si era degnato di alzarsi, mentre gli altri tre continuavano a poltrire senza neanche scambiarsi uno sguardo. Parsifal mi osservava con occhi fissi, senza mostrare segnali corporei che evidenziassero il suo stato d’animo.
Intuii che quello sguardo non piacesse a mia madre, che osservava la scena con apprensione; il dottore invece era molto tranquillo.
Parsifal infine si alzò, piegò le orecchie all’indietro e mi venne incontro con fare amichevole, e mi poggiò placidamente l’enorme testa sul petto; mi venne spontaneo grattargli il collo.
Intuii che, come il Pastore tedesco a suo tempo, il “capobranco” fosse lui; ma al contempo questa espressione non mi pareva appropriata, perché mentre il Pastore era capace di serrare letteralmente i ranghi e di far dipendere i movimenti del gruppo dal proprio comportamento, all’avanzare di Parsifal non era corrisposta alcuna attenzione evidente da parte degli altri tre Rottweiler. Pareva che fosse semplicemente venuto, per dir così, in rappresentanza. Più che un capobranco sembrava un sindaco. Che aveva saltato a piè pari tutti i riti tipici dei branchi di lupoidi, dritto verso un unico obiettivo: le coccole. “Buongiorno, io sono il sindaco, sei pregata di coccolarmi”.
A quel punto gli altri tre cani cominciarono ad osservarmi con interesse. “Ehi, guardate un po’, questa qui dispensa grattini”. Decisero persino di fare l’immane sforzo di alzare il sedere e venire a vedere se Parsifal avesse l’esclusiva o no. Fu proprio allora che mia mamma, sempre più agitata, mi richiamò.
Rientrai con un po’ di dispiacere. Intuii che mia mamma non avesse colto le intenzioni dei Rottweiler e che si fosse spaventata nel vederli accerchiarmi lentamente. Avevo vissuto quell’esperienza con spontaneità e avevo percepito le buone intenzioni dei quattro cani. Ma in effetti, a qualcuno che come mia madre fosse abituata ad osservare innanzitutto il linguaggio del corpo, il comportamento dei Rottweiler sarebbe potuto apparire ambiguo, dato che si erano limitati a fissarmi e a venirmi silenziosamente incontro, senza fare un verso, un abbaio, senza un’azione coordinata.
Mi avevano guardata e basta; e io avevo sentito che avevano piacere di essere accarezzati. Ma avrei scoperto con il tempo che questa capacità di ascoltare il silenzio dei molossoidi non è comune quanto per un po’ avrei dato per scontato che fosse.
Sicuramente dovevo molto all’interazione con Attila, che però, per quanto zuccone e anarchico, non aveva la flemma profonda dei Rottweiler del dottore. E infatti, molto più che all’interazione con Attila, in realtà dovevo al mio stesso modo di essere.
Come ho detto al principio di questo racconto, ogni forma di rito sociale richiede per me uno sforzo di comprensione in più, perché gli schemi sociali, le gerarchie, il linguaggio del corpo, non costituiscono il mio paradigma di comunicazione. Questo significa che faccio molta fatica a vivere le situazioni di riunione fra tanti esseri umani, una tempesta di riti e di gesti che devo faticare a capire, soprattutto se prodotti da più persone contemporaneamente; ma significa anche che esiste per me un livello base di comunicazione che non è quello delle persone tipiche. Avrei scoperto molto tardi, addirittura dopo la diagnosi di autismo, che le persone tipiche tendono a condensare le proprie sensazioni emotive proprio nei riti sociali e nella gestualità, che interpretano in modo pressoché automatico.
Ma proprio per questo, se hanno di fronte una persona del tutto silenziosa ed immobile, che li guarda senza muovere un muscolo e senza dire una parola, fanno più fatica a capirla e a sentirne le emozioni. A me succede l’esatto contrario. Faccio molta meno fatica a percepire una persona immobile e silenziosa che non una persona che si esprima attraverso gesti e parole. Perché quella persona immobile e silenziosa sta comunicando su quello che per me è il livello più semplice ed al contempo più palese di espressione emotiva. E la sento. La sento molto più facilmente di quanto sentirei una persona gesticolante e chiacchierona.
Quel giorno, anche se ne sarei divenuta consapevole molti anni più tardi, scoprii che questo per me vale tanto per gli esseri umani quanto per i cani. In quell’immenso cane nero-focato che mi fissava immobile e, senza nessun gesto plateale, mi veniva incontro e mi poggiava la testa sul petto, avevo sentito una nudità emotiva pari alla mia, ed una facilità di comprensione che non avevo mai sperimentato prima. Con qualsiasi altro cane sconosciuto, dai lupoidi ai terrier, avrei aspettato un qualsiasi segnale corporeo che mi autorizzasse ad accarezzarlo. Parsifal non aveva dato nessun segnale corporeo, ma il suo silenzio era amico, i suoi occhi tranquilli e un po’ sonnolenti erano amici, il suo alzarsi unicamente con le orecchie indietro era amico, e non avevo avuto bisogno di altro per capire che desiderava essere coccolato, e per certi versi per capire che aveva capito che anch’io desideravo accarezzarlo; lui stesso era venuto a porgermi la testa. Ci eravamo intesi all’istante. Eravamo diventati subito amici, come antichi compaesani ritrovati, perché entrambi madrelingua di immobilità e silenzio.
Ma mia madre, che non è madrelingua di immobilità e silenzio, riuscì a vedere soltanto un enorme cane nero che mi fissava e che mi veniva incontro con passo sicuro, e che si lasciava accarezzare senza dare alcun segno evidente di contentezza, mentre gli altri suoi tre compagni mi circondavano con fare per lei altrettanto imperscrutabile. Impaurita dai pregiudizi sui Rottweiler, mi aveva chiamata perché venissi via.
Ripensandoci oggi, non riesco a fare a meno di sorridere. “Non hanno empatia”, “Hanno esplosioni incontrollate di rabbia”, “Ti fissano e non parlano”. Quante volte ho sentito questi pregiudizi sulle persone autistiche. È molto interessante il fatto che si incrocino quasi alla perfezione con i pregiudizi sui Rottweiler. Dal comunicare in modo diverso, dal sentire in modo diverso, dal percepire e vivere le emozioni in modo diverso, e perciò non essere capiti dalla maggioranza delle persone, al passare per soggetti degni di sospetto, eversivi, pericolosi, è un attimo.
Nel caso dei cani, l’aggravante è la loro assoluta ingenuità che impedisce loro di difendersi dall’essere avvicinati da persone che ne possono fare letteralmente quello che vogliono. Io posso dire di no; un cane non può mai dire di no. E quando alla fine capisce che può farlo, finisce sui giornali come aggressore di esseri umani. È una storia triste che ho conosciuto in molte forme, fra esseri umani, fra cani, fra umani e cani.
Certo, non è facile dirsi di no su questioni tanto profonde quando si parlano lingue molto diverse e nessuno degli interlocutori conosce quella dell’altro. È qui che devo riconoscere l’eredità dei tanti animali che mi hanno insegnato a comprendere numerosi punti di vista diversi a prescindere dal mio, solo uno fra i molti, e l’eredità di Attila, che comprese come il plurilinguismo – Attilese-Flukkese, Attilese-Lupese, Attilese-Umanese, Attilese-Gallinese… – fosse la chiave di volta per evitare gli incidenti, per non avere paura degli altri animali, per avere fiducia nel mondo.
Ma a volte succede questa magia: si incontra un madrelingua della tua stessa lingua, non necessariamente della tua stessa specie. Il giorno in cui incontrai Parsifal scoprii che esiste un tipo di cane, il molossoide, che come me si esprime attraverso il silenzio e l’immobilità. Quel silenzio, quella semplicità, quell’immediata comprensione reciproca segnarono per sempre il mio modo di vivere con i cani e di comprendere le differenze fra di loro. E mi parve di intravedere in lontananza la possibilità che i rapporti con i cani potessero raggiungere dimensioni sublimi che fino ad allora avevo ignorato, ma che ora riuscivo vagamente a presagire.
Quella dimensione sublime esiste. Ma avevo ancora molta strada da fare prima di conoscerla. Il dottore dei Rottweiler mi avrebbe portata negli anni successivi in giro per il Nord Italia a visitare allevamenti di molossoidi: Rottweiler, Cani corsi, Pastori del Caucaso, Pastori dell’Asia Centrale.
Di queste esperienze meravigliose scriverò nel prossimo articolo.
Per ora basti sapere che, non molto tempo dopo aver vissuto queste avventure, la figlia del dottore si sarebbe sposata e, invitati al pranzo del matrimonio, avremmo trovato i nostri posti al tavolo del ristorante contrassegnati da caricature disegnate ad hoc. Mia mamma appariva elegante e vivace; mio padre aveva in una mano una sega, nell’altra un cellulare, perché era notoriamente incapace di passare un giorno senza lavorare fra capanni, tettoie, pergolati, pollai, boschi e orti, ed era in grado al contempo di rimanere a parlare per ore al telefono con qualcuno.
Io ero insieme ad un molossoide.
Un pezzo pregevole per fattura, sensibilità, originalità, luminosa “diversità”.
Grazie da un non madrelingua nel tuo prezioso idioma.